mercoledì 11 aprile 2012

Due ruote: salvezza o maledizione?

L’Italia ha il più elevato numero di centauri. Occorre perciò molta prudenza perchè il rischio di lesione è di quasi 20 volte superiore a quello delle auto.


L’Italia è il Paese europeo con il numero più alto di veicoli a due ruote: complessivamente poco meno di 10 milioni, di cui il 60% costituito da motocicli ed il resto da ciclomotori (interpolazione da dati ANCMA). È facilmente ipotizzabile che, come anche le autovetture, i veicoli a due ruote non siano tutti contemporaneamente circolanti e che il loro utilizzo cresca di molto in condizioni meteo più favorevoli. Il primato italiano ha varie cause. Vi contribuisce certo, almeno in alcune regioni, un fattore climatico favorevole, peraltro non molto dissimile da quello di altri Paesi mediterranei (Francia, Spagna, Grecia). Ma la causa vera è che le due ruote hanno risolto, per chi le utilizza, i problemi di “fame di mobilità” determinati dall’abnorme aumento delle automobili non accompagnato da un pari sviluppo della rete viaria e dei parcheggi, e non contrastato da una rete decente di trasporti pubblici, in un contesto economico-demografico che ha implicato un aumento delle percorrenze casa-lavoro.
La scelta delle due ruote è stata “strategica”, ma non precisamente “spontanea”; è stata anzi favorita ed incentivata dalle amministrazioni pubbliche, incapaci od impossibilitate ad investire per
lo sviluppo (e la manutenzione) delle strade e del trasporto pubblico. L’onere di risolvere i problemi della mobilità è stato quindi trasferito e ribaltato sui cittadini esausti, che hanno visto nelle due ruote, come suggerito dal senso comune e da “messaggi” abilmente diffusi, una “liberazione dalla morsa del traffico”. In effetti, la scelta delle due ruote è intelligente su più livelli: tenuto conto che un’autovettura trasporta, mediamente, 1,2 persone, il minore ingombro ed il minor consumo di un veicolo a due ruote lo rendono “ecologicamente corretto”; inoltre, le minori spese di acquisto e di gestione rendono il viaggiare con esso una soluzione economicamente molto valida.
Ma perché allora si parla con preoccupazione di un “problema delle due ruote”?
Il fatto è, su un veicolo a due ruote, l’esposizione al rischio di lesioni è 15-20 volte quella delle autovetture, per motivi facilmente intuibili: la moto è meno stabile in quanto più condizionata dalla situazione del fondo stradale (bagnato, sconnesso), conducente e passeggeri sono direttamente esposti in caso di collisione, al conducente sono richieste abilità di guida specifiche. A questi fattori particolari si aggiunge il comportamento adottato dai conducenti delle due ruote: passaggi con il rosso, eccessi di velocità, sorpassi a destra, improvvise variazioni di traiettoria e slalom con i pedoni sono pratiche comuni, che interferiscono però con flussi di circolazione prevalentemente composti da veicoli “grandi” e “lenti”. Si tratta di violazioni del codice della strada che mettono a repentaglio la sicurezza propria ed altrui; ma, se quei comportamenti non fossero adottati, quale sarebbe il vantaggio di mobilità delle due ruote?
Ed infine, i “dispositivi di protezione” per chi viaggia sulle due ruote si riducono sostanzialmente solo al casco, mentre particolari indumenti protettivi sono scarsamente usati in città, dove invece il tasso di incidentalità è maggiore. Il casco, fortunatamente, risulta ormai diffuso in Italia, tranne che in plaghe culturalmente arretrate rispetto alla sicurezza; alla sua accettazione hanno contribuito, più che le sanzioni per il non uso, le ricorrenti sentenze che hanno stabilito la riduzione o addirittura l’esclusione del risarcimento per lesioni sicuramente evitabili con il casco.
È da questi fattori (insicurezza del veicolo, comportamenti di guida spericolati, protezione offerta solo dal casco) che derivano i 1.400 morti e gli 83.200 feriti registrati nel 2008 (dati ISTAT-ACI) tra conducenti e passeggeri dei veicoli a due ruote. Si tratta di una cifra spaventosa, se rapportata ai complessivi 4.731 morti e 311.000 feriti da incidentalità stradale (pedoni compresi) rilevati dalle forze di polizia nel medesimo anno (ma dai Pronto Soccorso e da fonti assicurative il numero dei feriti è almeno quadruplicato); ancor più impressionante se si considera che la percorrenza media annuale di un veicolo a due ruote è pari solo alla metà di quella delle automobili.
L’incidentalità dei veicoli a due ruote pone anche questioni particolari sul piano medico: le lesioni che ne derivano, ad esempio, sono peculiari quanto alla loro prevedibile gravità ed agli organi e distretti interessati; la presenza del casco implica la necessità di particolari manovre per la sua rimozione senza produrre danni ulteriori.
È comprensibile quindi che, nelle famiglie, la decisione di consentire al figlio l’uso del motorino o di utilizzare la moto per i percorsi casa-lavoro si carichi di dubbi e preoccupazioni non infondate, vinte il più delle volte considerando appunto i vantaggi in termini di maggiore e più veloce mobilità. Peccato però che non viene razionalmente chiarito che questa decisione si basa su un compromesso tra due obiettivi in confl itto: una dose sempre maggiore di mobilità può essere raggiunta solo riducendo i comportamenti prudenti, assennati e “sicuri”. E non si creda di poter imputare gli eccessi solo alla giovane età o alla mancanza di esperienza: quasi la metà dei conducenti di veicoli a ruote ha un’età superiore a 35 anni!
Trovare un punto di compromesso più razionalmente sostenibile dovrebbe quindi essere un compito della società nel suo complesso, senza delegare la soluzione alle pubbliche amministrazioni che, come ormai abbiamo visto, non potendo/volendo incidere sulla carenza di mobilità, risolvono il dilemma con le consuete armi delle sanzioni (inapplicabili o inapplicate) o delle regolamentazioni. Se si continua su questa strada si arriva al punto di rottura tra società da un lato e pubblici poteri dall’altro, eludendo la questione di fondo: è possibile arrivare ad una mobilità che sia contemporaneamente sicura e soddisfacente?
Nella discussione sul punto se le due ruote siano una salvezza o una maledizione, si è recentemente innestato il problema dei quadricicli o microcar, che hanno dato luogo ad aspre prese di posizione, scatenate anche da fatti di cronaca per gravi incidenti che hanno visto coinvolti questi veicoli. È opportuno chiarire che i quadricicli, seppure in espansione, costituiscono ancora un fenomeno minoritario: stiamo parlando infatti di circa 90.000 teoricamente circolanti, concentrati nelle grandi città (Roma, Milano, Firenze, Napoli). Si tratta di veicoli prodotti in piccola serie da diverse piccole industrie. Per intrinseca necessità, essendo mossi da motori di piccola cilindrata, devono essere leggeri: da ciò deriva l’esteso uso di plastiche anche per la carrozzeria esterna e l’adozione di componenti “leggeri” tutte le volte che è possibile.
Il loro vantaggio maggiore è che offrono protezione contro le intemperie e, poggiando su quattro ruote, sono più stabili. Nel loro uso, in alcune città, consentono anche di superare le limitazioni delle Zone a Traffico Limitato (ZTL); psicologicamente, consentono l’illusione di viaggiare “dentro una piccola auto”. Purtroppo però l’illusione compie un passo ulteriore, spingendo a guidarli come se veramente avessero le stesse caratteristiche di protezione di un’auto. Ed invece così non è: plastica era e plastica rimane e, seppur dotate di cintura di sicurezza, le microcar hanno gravi limiti nella solidità degli attacchi delle cinture alla carrozzeria. Vengono quindi a mancare tutte quelle caratteristiche di sicurezza (attiva e passiva) che nelle autovetture sono oggetto di omologazione e che sono valutate in condizioni ancora più severe nei test EURONCAP. Nelle microcar le procedure di omologazione non prevedono questi aspetti: si tratta di veicoli “carini” a vedersi (e cari come prezzo…), effettivamente pratici e funzionali, ma che dovrebbero essere guidati tenendo ben presente che offrono una protezione limitatissima e non standardizzata: i loro limiti si scoprono proprio in caso di incidente! A maggior ragione, se vogliamo proteggere i bambini, dovremmo evitarli di trasportarli dentro le minicar.
I numeri dell’incidentalità sono, fortunatamente, ancora bassi: nel 2008 (ISTAT-ACI) 18 morti e 560 feriti; tuttavia, rapportati al circolante, sono persino maggiori rispetto ai veicoli a due ruote. Come mai ? Per il medico traumatologo la domanda è interessante. Purtroppo, nonostante i produttori siano ottimisti sull’andamento del mercato, mancano del tutto le ricerche sull’argomento, ed il fatto non è casuale. Tuttavia, è possibile ipotizzare che nell’incidente con veicoli a due ruote il corpo del conducente o del passeggero, sbalzato dal sellino, perda gran parte dell’energia cinetica strisciando sul suolo; se protetto dal casco e da indumenti idonei (ed a maggior ragione da paraschiena) la gravità delle lesioni è minore rispetto all’occupante una microcar che, non dotato di casco, impatta violentemente (anche vincendo la debole resistenza fornita dagli attacchi della eventuale cintura) contro l’ostacolo che gli si para davanti o di lato, senza nessuna protezione da parte del sottile strato di plastica che lo circonda. Insomma, sulle microcar il tasso di esposizione al rischio di lesioni è maggiore ai veicoli a due ruote, ed il rischio aumenta se, manomettendo il motore (operazione indirettamente suggerita dalle stesse officine…), si aumenta la velocità del veicolo e quindi la violenza dell’impatto. Non c’è dubbio che anche le microcar possono essere un vantaggioso “strumento di mobilità”, ma solo se usate con giudizio e tenendo presenti le loro limitate prestazioni di sicurezza. In fondo, anche un coltello è utilissimo: ma se usato male può ferire ed uccidere. Tutto dipende dalla testa di chi lo usa e dalle sue intenzioni.

Di Andrea Costanzo

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