È detto gaming
disorder e, a livello patologico, è
definito dall’Oms come "una serie
di comportamenti persistenti o ricorrenti legati al gioco, sia online che
offline, manifestati da: un mancato controllo, una sempre maggiore priorità
data al gioco, al punto che questo diventa più importante delle attività
quotidiane e degli interessi della vita; una continua escalation del gaming
nonostante conseguenze negative personali, familiari, sociali, educazionali,
occupazionali o in altre aree importanti". In particolare è ritenuto
patologico quando il comportamento è riproposto per 12 mesi, ma se i sintomi
sono gravi e ci sono tutti i requisiti diagnostici, la durata può anche essere
inferiore.
Emilio Sacchetti, in Italia uno dei maggiori esperti
sul tema, è presidente eletto dell'Accademia italiana di scienze delle
dipendenze comportamentali (AISDiCo), associazione che si interessa di “tutte
quelle forme di dipendenza che implicano un desiderio inarrestabile o una
compulsione a impegnarsi in un comportamento premiante non connesso
necessariamente all'uso di droghe o sostanze psicoattive”. La dipendenza da
videogiochi rientra perfettamente in questa descrizione, così come il gioco
d’azzardo (gambling), molto più
conosciuto e studiato. Sacchetti spiega che “i due comportamenti si
assomigliano e in alcuni casi sfociano nella patologia. Nel gioco d'azzardo si
stima che questo accada nell'1-1,5% dei casi ed è presumibile che per i
videogiochi la percentuale sia simile, anche se non esiste nessuna stima
affidabile”.
Essendo il gaming
disorder qualcosa di relativamente recente, non ci sono ancora linee guida
o protocolli universalmente accettati, ma l'intervento più efficace è quello
preventivo: “Attraverso l'educazione, occorre insegnare ai ragazzi ad adottare
un approccio ragionato e non eccessivo al gioco; spesso il rischio è
sottovalutato ma i gli adolescenti sono certamente la fascia d'età più esposta.
Non abbiamo ancora studi su grandi numeri e i trattamenti sono generalmente di
tipo psicoterapeutico, per lo più con un approccio cognitivo comportamentale”.
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